capelli, impalcature, buon vicinato

Sono triste, posso dirlo? L’ho detto. Ma non vi fate ingannare, non cerco consolazione. A me la tristezza non dispiace (è un gioco di parole sottile, o una emerita idiozia? chi può saperlo?). Io nella tristezza ho il mio luogo tranquillo, posso pensare, riesco a vedere, vedere soprattutto dentro. Per cui negli ultimi tempi ho visto delle cose di me, che in effetti non mi sono piaciute, ma ormai mi appartengono, non so quanto riuscirò a cambiarle, perciò tanto vale iniziare a parlarci, a conoscerle meglio, magari a volergli bene. Premetto che sarà un articolo un po’ confuso, purtroppo sono tante le idee e sensazioni che mi frullano dentro da un po’ che non sono riuscita a organizzarle in maniera pulita, che poi è una di quelle cose che ho capito che forse non riuscirò a cambiare del tutto, intendo l’organizzazione pulita.

Partiamo dai capelli. I miei capelli. Li ho sempre amati. Ahimè, hanno iniziato a tradirmi presto, imbiancandosi in un’età giovane e costringendomi alla schiavitù della tinta. Potrei smettere di tingermi, come fanno tante donne, anche più giovani di me. Ne ho avuto la riprova quando sono stata al consiglio nazionale AGESCI, a Verona dieci giorni fa. Tante capo avevano i capelli grigi, e non avevano ancora 40 anni. Ho ammirato i loro volti puliti, gli occhi chiari e i sorrisi di chi sa precisamente qual è il suo posto. Ovviamente queste sono tutte supposizioni, è ciò che io immagino, che proietto sugli altri, chissà che tormenti interiori anche loro, per aver lasciato i figli o la famiglia per quei due giorni. Chissà se sentono come me il senso di colpa e la necessità di rispondere a questa chiamata. Tornando ai capelli, ai miei capelli, ho deciso anche di farli crescere. Molti mi hanno suggerito di tagliarli, perchè “mi piaci di più con i capelli corti”, ma io non ci riesco ancora a tagliarli, ho bisogno di farli crescere, non per un concetto molto new age delle antenne rivolte al mondo, attraverso cui possiamo connetterci (è sicuramente imprecisa come affermazione, Paola Maugeri nei suoi pod cast e post sui social, l’ha spiegata bene) ma per il bisogno tattile di curare qualcosa che vive con me, ma che non posso effettivamente controllare, come avere un gatto, solo che è in testa e non devi fargli mangiare crocchette e pulirgli la lettiera. E perchè non posso controllare i miei capelli? Non so se ve lo state chiedendo, comunque io vi rispondo lo stesso. In qualche articolo fa, proprio su questo blog, andrò a verificare e poi vi aggiungerò il link, ho parlato proprio del fatto che i miei capelli non hanno mai la forma che provo a dargli con le messe in piega e i vari stratagemmi che uso per fare onde o boccoli, a partire dalla piastra per finire ai calzini di spugna. Anche recentemente i miei capelli non mi hanno accontentato, nonostante l’impegno, la competenza e l’esperienza del mio parrucchiere che mi ha tagliato una frangia perfetta. Nella mia fantasia, dovevo apparire più simile a Federica Moro di College, sogno erotico di molti adolescenti degli anni 90, che a Eddie Van Halen (pace alla sua anima rock ovunque si trovi). Pazienza, niente sogno erotico, come se bastasse un taglio di capelli ben fatto a rendermi più appetibile. Resto in ogni caso gelosa dei miei capelli, non gradisco molto che me li tocchino a meno che non lo facciano con cura, quando ero piccola concedevo solo a papà, e al parrucchiere che tra l’altro era zio Peppe, di mettermi le mani in testa. Sono gelosa anche dei capelli di pagnotta e quando, più di due settimane fa ormai, ha fatto la sua prima gara di ginnastica ritmica, mi sono sentita investita di un ruolo importantissimo mentre le facevo il famoso “tuppante”. Capelli ribelli su bimba vivace non mi hanno impedito di fare un buon lavoro, l’impalcatura ha retto per tutte e 9 le ore che lo ha tenuto. Nove ore di tuppo per un minuto e quaranta secondi di esibizione. E’ incredibile come l’impalcatura debba durare più del motivo per cui è stata eretta. Per il bonus ristrutturazioni sono ormai sei mesi che siamo circondati da impalcature, mi dicono che dovrò entrare nell’ottica che il cielo lo vedrò incorniciato da tubi innocenti almeno per un altro anno. Finchè è inverno poco male, le finestre sono chiuse la maggior parte del tempo e giro ancora abbastanza vestita per casa. Ma tra qualche tempo, la mia mise sarà canottiera e pantaloncini. Con tutti gli operai che gireranno attorno al tetto della mansarda, dovrò rivedere questa scelta di dubbio gusto. Inutile che pensate a Federica Moro in College, nessun operaio si distrarrà per questo. Piuttosto potrebbero vedere una versione in carne e ossa di Homer Simpson. Sarà per questo che insisto sul farmi crescere i capelli? Per distinguermi da lui?

Ritornando alle impalcature, non mi era chiaro il rischio di questa estate, finchè un pomeriggio, mentre stavo guardando un episodio di Veronica Mars particolarmente avvincente, non mi è preso un colpo vedendo una figura aggirarsi sul tetto, in modo rapido (avrei scritto furtivo, ma adesso so che non era furtivo, solo rapido). Mi ha colto un coccolone e poi ho realizzato che c’erano gli operai che stavano lavorando. Veronica Mars, ho adorato questo telefilm. Mi piaceva il rapporto che lei aveva col padre, mi faceva pensare anche al mio rapporto con papà, l’ironia, la complicità, alcune passioni in comune. Inutile dire che mi avrebbe fatto piacere guardarla con lui, come anche Fringe. Sono certa che gli sarebbero piaciute entrambe le serie. Veronica Mars anche per le note noir, per il thriller e la possibilità di scoprire chi ha fatto cosa da indizi sotto gli occhi di tutti. Anche il signor P. come me amava i gialli, ad Agatha Christie mi avvicinai grazie a zia Anna, ma Nero Wolfe ed Ellery Queen sono stati suggerimenti di papà. Anche Fringe gli sarebbe piaciuto, sebbene meno appassionato di fantascienza, papà avrebbe trovato plausibile sia l’orizzonte narrativo che i tasselli di ogni episodio che contribuivano alla struttura della serie. Peccato che non possa rivederlo su nessuna delle piattaforme a cui sono abbonata.

In riferimento alla passione comune della lettura con il signor P., sto partecipando agli incontri che si svolgono nella sede del Bianconiglio a Caserta, a cura loro e de Il ritrovo del lettore. A breve ci confronteremo su Raymond Chandler e Il grande sonno. Ho letto questo noir più di venti anni fa ormai, ricordo in buona sostanza la trama, vidi anche il film con Robert Mitchum (anche se mi sarebbe tanto piaciuto vedere quello con Humphrey Bogart e Lauren Bacall) ma per poterne parlare in quell’incontro vorrei potergli dare una ripassata. L’ho cercato sia nella mia libreria, libreria diffusa in tutta la casa, anche nelle librerie di mamma, ma nisba. Così ho chiesto ad Asso, vecchio amico del signor P., vicino di casa dei miei, padre della mia migliore amica e divoratore di libri, se per caso ne avesse una copia. Niente, neanche lui. Poche ore più tardi mi scrive che ha parlato col fratello e siccome sarebbe andato a trovarlo, e lui una copia ce l’aveva, me l’avrebbe fatta prestare. Ecco un esempio di buon vicinato. Forse anche qualcosa in più di buon vicinato. Questa è amicizia. Ma io voglio provare a pensare al semplice gesto del prestare. Prestare secondo me è un atto di amicizia anche più grande del donare, vuol dire: “Mi fido di te al punto da darti una cosa per me preziosa, perchè so che me la restituirai intatta”. Vuol dire “corro il rischio”. Se la riferisco alle relazioni d’amore, beh, un po’ mi viene tristezza, pensando a quante persone diamo “in prestito” il nostro cuore, e quando ci separiamo ce lo restituiscono ammaccato, sciupato, calpestato, sbrindellato. Se il cuore fosse come un libro, non mi sognerei mai di dire: “Aprilo poco altrimenti si fa il segno nel dorso”, lo metto in conto, come metto in conto che chi lo ha in custodia ci metta un segnalibro, accetto anche che faccia un’orecchietta alla pagina, persino che sottolinei delle frasi (preferibilmente a matita). Invece ci torna sempre indietro che poi bisogna farne un restauro, e poi fatichiamo sempre più a darlo in prestito. Non rinuncio però a prestarlo. Forse perchè sono cresciuta in un palazzo di buon vicinato, dove sono stata accolta quando non avevo le chiavi di casa e dovevo aspettare da qualche parte che tornassero i miei, perchè ci si è offerto l’un l’altro bicchieri di zucchero quando mancava a casa e poi si ricomprava il pacco intero a chi ce lo aveva prestato, perchè si è cucinato pranzi a chi aveva perso un caro, si è andati a far la spesa per chi non poteva muoversi, ci si è preoccupati per i figli degli altri, mentre i genitori erano fuori. Che bello sarebbe se anche l’Italia si concepisse così, la nostra penisola, un buon vicinato per i migranti. Che bello se dicesse: “Vieni, accomodati qui, mentre aspetti. Ti do io un po’ di zucchero, me lo ridarai quando potrai, e se non potrai non importa, che vuoi che sia un po’ di zucchero per noi? Mi dispiace per la tua perdita, non posso lenire il tuo dolore ma posso nutrirti affinchè tu abbia le forze necessarie per andare avanti. Ecco qualcosa che potrà servirti, le ho prese per te, così non ti manca l’essenziale per stare bene. I tuoi bambini sono al sicuro con me, me ne prenderò cura finchè non potrai farlo tu di nuovo, o finchè loro non siano in grado di farlo da soli“. Mi piacerebbe tanto che il mio Paese parlasse così ai popoli che giungono sulle nostre coste. Che fossimo davvero dei buoni vicini.

Eccomi giunta alla fine, non so se era qui che volevo arrivare. Avevo bisogno di scrivere perchè sono triste. Il perchè ha sia valore di avverbio che di sostantivo, in questa frase. Quando sono triste scrivo così vedo meglio ciò che la tristezza fa emergere del mio vissuto (perciò a volte si piange, perchè così si produce l’acqua in cui risalgono a galla i nodi da sciogliere. Che l’acqua sia anche solvente e pertanto sappia sciogliere, non è un caso nemmeno in questa frase) Scrivo i motivi (i perchè) sono triste per poterli osservare meglio. Per raccontarmi un’ulteriore verità su di me. O almeno ci provo a far sì che venga fuori la mia verità. Mi domando spesso a che pro scrivere tanto, a volte anche di cose così poco attuali, come i capelli e le impalcature, o peggio ancora di buon vicinato. Non aggiungo e non tolgo nulla. Ma se una sola persona, nel leggermi, avrà sentito risuonare simili sentimenti, questa operazione di scavo non sarà svolta invano. Sono certa di non essere la sola ad aver pianto nel vedere le immagini della strage di Cutro come di tutte le altre morti in mare. Sono certa che non sono la sola a piangere dopo dieci anni la perdita di un genitore, a rivedere in infiniti dettagli la sua presenza, a cercare costantemente legami, fili invisibili, profumi e sapori per ricordarlo (giorni fa ho chiesto alla mia amica Gabri di insegnarmi a fare le meringhe solo perchè mio padre le adorava e desiderava che gli venissero bene, asciutte e bianchissime), piccoli riti quotidiani per sentirlo ancora vicino. Sono certa di non essere la sola a piangere di fronte al fatto che siamo ben lontani dal nostro ideale di estetica, di incarnazione del ruolo sociale (la faccio facile: non riusciamo ad essere la madre perfetta, nè la donna lavoratrice perfetta, nè la partner perfetta, ecc. ) di comportamento e di capacità di relazione, di successo. E che spesso lottiamo per raggiungere quell’ideale. Ma solo se abbracciamo il reale forse possiamo essere felici e accorgerci che siamo meglio di quanto crediamo.

Papicchio, oggi è per te. Perchè mi manchi sempre. Perchè vorrei un tuo abbraccio. Perchè vorrei che tu e pagnotta vi foste conosciuti. Perchè vorrei che tu sapessi che nonostante tutto io mi voglio bene (mi spiace, ma non credo alle parole: “Ma lui lo sa, lui ti vede, lui è fiero di te”. Questa è una bugia che ci raccontiamo per sopportare il dolore. La verità è che qualunque cosa facciamo o in qualunque modo diventiamo o qualsiasi obiettivo raggiungiamo, dobbiamo farlo esclusivamente per noi, sebbene il desiderio sia di incrociare l’approvazione nei tuoi occhi papi. Perchè quello sguardo d’amore non lo avrò più. Lo cercherò sempre, ma devo sforzarmi di trovarlo esclusivamente in me). Questo articolo è anche per me e per tutti coloro che rischiano dando il cuore in prestito.

Informazioni su ioly7

forse non lo so fare bene, ma non posso fare a meno di farlo: scrivere. quando scrivo tutto è possibile e così placo le mie manie di onnipotenza, quando scrivo tutto è più chiaro e così digerisco meglio il buio dentro me, quando scrivo, stranamente, riesco anche ad amarmi.
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